non arrendetevi

Dedicato alle vittime del terremoto, di tutti i terremoti.

NON ARRENDERTI MAI..

neanche quando la fatica si fa sentire,
neanche quando il tuo piede inciampa,
neanche quando i tuoi occhi bruciano,
neanche quando i tuoi sforzi sono ignorati,
neanche quando la delusione ti avvilisce,
neanche quando l’errore ti scoraggia,
neanche quando il tradimento ti ferisce,
neanche quando il successo ti abbandona,
neanche quando l’ingratitudine ti sgomenta,
neanche quando l’incomprensione ti circonda,
neanche quando la noia ti atterra,
neanche quando tutto ha l’aria del niente,
neanche quando il peso del peccato ti schiaccia…
stringi i pugni, sorridi………
e ricomincia.
San Leone Magno

26 maggio

Il problema del mondo non è il male che c’è,

ma il bene che manca.

Non aggiungo altro…già ho fatto e detto cose in più rispetto a quelle che saggiamente avrei dovuto, come da poco riportato nel blog:

Non rispondere quando sei arrabbiato.

Non decidere quando sei triste.

Non fare promesse quando sei felice.

va bene così

intenti

ok….ok……

la signora Lilly proprio non ci vuol sentire.

Allora sia.

Ripeto e sottolineo che non intendo usare questo blog, ops….correggo: non avrei voluto usare questo blog nato come mio diario personale prima e sottolineo PRIMA che la signora Lilly facesse la sua comparsa nella mia vita come mezzo di scambio di comunicazioni con la suddetta. Purtroppo nel suo blog stamani ho trovato un’inondazione. E non ritengo più giusto tacere.

Ma la vita sovente ci mette davanti a “cambiamenti d’idea”….come si dice “solo gli stupidi non cambiano idea”.

Quindi mi scuso con gli eventuali lettori di passaggio nel mio blog che si troveranno a leggere posta “personale”, e aggiungo che mi scuso in anticipo se in questa fase mi potrebbe capitare di usare termini un po’ forti. Purtroppo quando sono arrabbiata o piena d’adrenalina in circolo il meccanismo di controllo del linguaggio perde efficienza e mi ritrovo a fare la “pescivendola” come già sottolineato in un’altra occasione mesi fa.

Preciso che l’intento sarà quello di rispondere alle accuse che la signora Lilly mi muove e provare a scandagliare quel che è avvenuto in questi anni tra me e lei…perchè penso proprio che la signora abbia l’assoluto bisogno di rinfrescarsi la memoria.

Questo indipendentemente dalla mia relazione con Fra attualmente in essere della quale non debbo parlare con lei…ops…non dovrei.

Ma dato che le piace così tanto stuzzicarmi… vabhè…ok……di cose ne ho da fare milioni in questo periodo…ma vediamo pure di riuscire a scambiare quattro chiacchiere.

Adesso debbo assolutamente andare avanti con il lavoro, comunque a  presto.

 

La canna e il vento

Non era mai accaduto.
Nel boschetto
gli alberi erano tutti innamorati
di una canna
una cannuccia sottile
che amava invece il vento,
il vento che porta la pioggia.

Così il boschetto l’aveva ripudiata.

La canna innamorata
rispose “Per me, questo va bene”.
Voi state pure tutti da una parte,
ché dall’altra c’è il vento della pioggia.
Così vuole il mio cuore.

Il boschetto offeso,
sentenziò la morte
per quell’innamorata dagli occhi di rugiada.
Chiamò il picchio dal becco forte,
e il picchio colpì nel cuore
tre, quattro, cinque volte
nel cuore della piccola canna.


Da quel giorno
la canna innamorata divenne flauto
e da quel giorno
le ferite degli amanti
parlano con le dita del vento
e cantano,
ovunque nel mondo,
da quel giorno.

Sherko Bekas

scelte diverse

Ho appena inviato il testo dell’ultimo scritto di Lilly sul suo blog alla mail di Frà.

Purtroppo seppure entrambe amiamo quest’uomo lo facciamo in modo diverso.

Forse io sbaglio tutto come asserisce lei…forse.

Ma d’altra parte io sono io e lei è lei.

Lei certamente avrà da recriminare sul fatto che ho messo lui a conoscenza di quanto da lei “vomitato” nel blog.

Uso questo termine “vomitare” non per offendere….ma perchè so esattamente come ci si sente in questi frangenti: pieni di roba da tirare fuori. E ben venga sfogarsi.

Ma torniamo a bomba. Lei continua a scrivere che io non voglio vedere, non voglio capire, non ascolto…e via dicendo.

Si sbaglia enormemente. Semplicemente agisco in modo diverso da lei.

Io coinvolgo Fra in quel che scrive lei perchè voglio che sia lui a prendere delle posizioni.

Lei scrivendo nel blog e continuando ad alimentare un rapporto tra me e lei fa esattamente quel che non va fatto.

Si sostituisce a lui impedendogli di crescere e fare e dire.

Che senso ha scrivermi – indirettamente, ma scrivermi – che lui mi mente, che non mi ama, che qui che la?

Ma perchè lei che accusa tantissimo me di non parlarci invece di scrivere a me non lo prende per mano, ci va a cena fuori e gli fa capire una buona volta che deve dirmi le cose che lei scrive se corrispondono a verità? Già…perchè invece lui interpellato nega. Nega ogni asserzione che fa lei. Ok…ragazzi…mettetevi a tavolino e chiaritevi tra voi.

Perchè se a voi sta bene di giocare….fate pure.

Io ho un figlio adolescente con tutto quel che vuol dire.

Io ho un lavoro autonomo che in questo periodo mi uccide e non ho la tranquillità di una busta paga.

E altri problemini personali.

E soprattutto….amo un uomo che vive a 700 km. Ho assoluto bisogno che quest’uomo sappia cosa vuole o non vuole.

E che sappia dirlo con convinzione. Perchè che mi vuole nella sua vita lo so. Ma necessità che lo sappia anche lui e che lo sappia dire.

Che sappia difendere questa volontà, che una volta per tutte dica a Lilly che non ha bisogno di un avvocato che parla al posto suo.

Lei non si rende conto che Fra è un uomo…non un bimbo. Continua a ripetere l’errore.

Lui deve decidere se vuole continuare a permettere a Lilly di invadere la sua sfera privata o in che misura.

Invece lei sarebbe bene che riflettesse su una cosa che ha scritto recentemente:

“la loro finzione non finirà per colpa mia…..”

 

cose da non fare :-)

Non rispondere quando sei arrabbiato.

Non decidere quando sei triste.

Non fare promesse quando sei felice.

….non fare queste cose è saggio…ma talvolta l’emotività prende il sopravvento.

e ci lasciamo andare correndo dietro alle nostre emozioni.

Per questo esiste il perdono, la comprensione, la pazienza.

Per recuperare agli errori fatti e ricucire gli strappi sulle labbra.

dov’ero?

Stasera sono stata a casa di amici per il nostro consueto appuntamento per il gioco di Dangeons and dragons e mentre tornavo a casa mi sono ritrovata con una domanda nata nella mia testa in modo assolutamente spontaneo:

dov’ero?

Dov’ero mentre il mondo si trasformava come oggi si presenta ai miei occhi?

Dov’ero mentre le persone che conoscevo e sceglievo adatte per diventare Amici si trasformavano in persone diverse da quel che ritenevo?

Cavoletti…stasera per l’ennesima volta – quindi non è un caso – non può essere un caso qualcosa che si ripete con una discreta frequenza – ho assistito ad un comportamento che non comprendo.

Non comprendo come si può scherzare, vezzeggiare, coccolare di complimenti e battutine carine e gentili una persona che ripetutamente negli ultimi due/tre anni definisci una persona con la quale hai deciso di chiudere i rapporti.

Giuro, non riesco proprio a comprenderlo.

Soprattutto perchè i “complimenti” poco lusinghieri dei quali vengo messa a conoscenza non sono manifestati a caldo, in momenti di rabbia o irritazione. No, vengono espressi con calma, in momenti di tranquillità…come parlando di fatti assodati e definiti.

Quindi? Quindi si tratta di ipocrisia bella e buona?

Temo di si….e purtroppo mi ritrovo a constatare che osservo comportamenti analoghi spesso….troppo spesso.

Quindi mi pongo la domanda: dov’ero quando le cose mi sono cambiate sotto il naso?

Oppure erano già così, già persone che non mi piace definire false…diciamo opportuniste? Ed io inizialmente non me ne sono avveduta? Perchè vediamo le persone attraverso i nostri stessi occhi, attraverso i nostri pensieri, attraverso il nostro modo d’essere quindi alcuni comportamenti ci risultano assolutamente estranei?

Ed è doloroso osservarli.

Si.

Doloroso.

Doloroso vedere come persone che in privato parlano le une delle altre in modo quasi raccapricciante che poi interagiscono pubblicamente in modo smielato.

Bhò.

Non capisco. Non capisco e reagisco al mio solito modo. Mi tengo a distanza, osservo, resto in silenzio e imparo. Imparo che il mondo è davvero un posto strano e difficile dove sopravvivere.

Anche perchè un’altra domanda a questo punto mi sorge spontanea: ma se queste persone sono false nel rapporto con i terzi….chi non mi dice che non siano false anche nel rapportarsi con me?

Chi è falso ed ipocrita…lo è con tutti. Lo è nell’anima, lo è nei pensieri. E non credo che facciano eccezioni…..quindi…..uno più uno fa due.

Insomma….sono stata educata come se il mondo fosse fatto in modo giusto, corretto, con degli ideali, con dei sogni….e mi ritrovo in un mondo egoista nel quale l’unica cosa giusta è quella che fa stare bene il diretto interessato indifferente ai bisogni altrui.

No, Angy, il mondo non è tutto così. Ci sono ancora belle persone. Ma restano in silenzio ed osservano…..disorientate e sperdute. Coraggio….il mondo cambierà, e cambierà in meglio. L’importante è non arrendersi al “brutto” che avanza.

Coraggio….!!!!!

un bacione a tutti e sogni belli

smack

 

Aria di guerra

Caro Diario,

perchè ho condiviso con te il post precedente? Perchè sento l’aria intorno a me sempre più carica “d’elettricità”….sento i Tg con le notizie e leggo le Home Page piene di episodi di “guerra”.

Già. Siamo in guerra. Non è una guerra che si combatte con le armi, con i fucili, le mitragliatrici o le pistole e via dicendo.

No, questa guerra è più brutta. Si combatte con i soldi. Si uccide la gente con i debiti, con la paura della fame. Gli uccidi la dignità, la speranza, la possibilità di sentirsi realizzati a questo mondo.

Già…perchè poi c’è anche questo problema. Che il mondo d’oggi ti impone degli standard per essere riconosciuto parte del mondo stesso: I-pad, cellulare ultima generazione, viaggi in giro per il mondo, continui cambiamenti d’abito….ecc..ecc….

Perchè magari….forse…..quelli che si stanno uccidendo in questi giorni o che commettono gesti al limite della totale follia un letto ce l’avevano pure, e un “panino” alla fine della giornata riuscivano a mangiarselo….mentre guardavano il cielo in alto, il sole o le stelle.

Ma no. Ti senti comunque un fallito perchè non riesci a pagare l’assicurazione della macchina, perchè non puoi stare dietro a questa parte di mondo che corre dietro al consumismo più frenetico.

Ed anche questo “consumismo”…., questo stile di vita al quale siamo abituati come siamo abituati a respirare, noi nati negli anni della ricostruzione…, questo padre che ci ha educati come figli a dover comprare comprare comprare…..adesso che siamo in recessione…..che fine fà?

Il mondo che io conoscevo sta cambiando….e cambia molto più velocemente di quanto io mi aspettassi. Io ne sono disorientata e spaventata.

La gente cambia.

Si respira più rabbia in giro, più insoddisfazione, più nervosismo, più intolleranza.

Riuscirà questa umanità a salvarsi da se stessa?

Io non lo so….ma ci spero tanto, veramente tanto.

Spero che la bellezza del creato ….che mai ci ha traditi ed ogni primavera torna a dirci che è dalla nostra parte con umiltà e semplicità….che ci da grano per il pane sulle nostre tavole, che ci da sole per scaldarci, che ci da sorgenti con acqua da bere, che ci fa sentire parte dell’universo vivo ci guidi  e – soprattutto – guidi chi deve guidarci, noi….popolo arrabbiato, deluso, avvilito, scontento, infelice,  nella giusta direzione:

l’amore e il rispetto per la vita di ciascuno.

 

 

La natura umana…..

“Dialogo tra
Freud e Einstein sulla Natura Umana”

Albert Einstein
e Sigmund Freud, alla fine degli anni ’30, discutono intorno alla natura umana
e alla sua tendenza a commettere bestialità e atti contro ragione, come la
guerra. Freud è scettico  sulla possibilità di eliminare l’irrazionalità umana.

 

F. “Herr Albert, gli uomini vivono in verità in una
condizione assai più miserrima di tutte le creature viventi del Mondo, vegetali
o animali che siano, e tale loro condizione è essenzialmente dovuta alla
stoltezza e alla miopia che troppo spesso guida le loro azioni. Quale, fra le
bestie del creato, è dotata di raziocinio e intelligenza tale da poter
autonomamente decidere cosa è bene, cosa è male, cosa è azione morale, cosa non
lo è? E quale razza animale, casomai dotata di ragione per un improvviso dono
della Volontà Divina, agirebbe, conseguito un tale strumento di giudizio del
proprio agire, contro di essa? Perché è tale la condizione umana: agire contro
ragione.

Diverso tempo fa un tale filosofo che era detto illuminista di nome
Voltaire disse che il genere umano era l’unica razza che, nella barbara pratica
della guerra, prendeva spontaneamente, e per di più – cosa che era la somma dei
mali – collettivamente, la decisione di autodistruggere la propria ragione,
concludendo perciò che la guerra ERA un atto contro ragione. Il suo pensiero,
come sicuramente ricorderai, influenzò in maniera notevolissima l’immaginario
collettivo europeo, abituato sino ad allora a considerare la guerra come una
consuetudine del panorama politico del Vecchio Continente. Si cominciò per la
prima volta a discorrere nelle anticamere dei circoli intellettuali di
eguaglianza dei popoli, di libertà di pensiero, di dominio del mondo tramite la
ragione, persino di perpetuo bando di ogni forma di guerra… eppure,
storicamente parlando, questo programma fallì miseramente, come poi confermato
da una molteplicità di eventi successivi, taluni molto prossimi a noi e di
gravità spaventosa. Voltaire, come molti pensatori del suo tempo credeva nella ragione
e, grazie a questo, nella facoltà umana di saper controllare e reprimere i suoi
istinti bestiali. Era una mera illusione”.

E. “Eppure Sigmund, il mondo ha saputo conoscere
momenti di pace e stabilità, favoriti anche dallo stesso genere umano, il quale
ha saputo prodigarsi, in taluni barlumi di razionalità, per il progresso
scientifico e il miglioramento di vita e società”.

F. “Esatto, giustissime parole! L’uomo sinora ha
saputo agire degnamente solo durante “barlumi” di razionalità, sempre e
comunque preceduti e seguiti da oceani di tenebre dove il genere umano
sguazzava letteralmente nelle sue pulsioni, nei suoi istinti. A ragione Hobbes
diceva “homo homini lupus”, visto il comportamento bestiale del genere umano.
Neppure il Maclavellus lesinava commenti nei suoi Discorsi sopra la prima Deca
di Tito Livio, dipingendo gli uomini (incoraggiandoli in realtà in tale
atteggiamento) come esseri ipocriti, falsi e opportunisti, spinti naturalmente
alla guerra per ingordigia e sete di potere e all’utilizzo spregiudicato della
loro arguzia.

Non sono eloquenti questi esempi? Non dimostrano quanto

sia incurabile il cancro che divora la mente e le azioni umane spingendole
all’autodistruzione?”

E. “Tale è verità; tuttavia Schopenauer, voce
altrettanto autorevole, poneva nella volontà di vivere il fondamento sul quale
si reggeva il mondo e le azioni umane. Partendo da queste riflessioni si
potrebbe pensare che gli atti contro ragione – tra cui la guerra – siano
impensabili, perché andrebbero contro la stessa Volontà. E’ possibile perciò
che la causa delle dissennatezze umane non stia dentro l’uomo, ma piuttosto
fuori dall’uomo, o che questo non sia totalmente responsabile delle proprie
azioni in taluni momenti della sua esistenza”.

F. “Interessante posizione; tuttavia, a proposito
del filosofo di Danzica, posso citarti Hegel, la cui filosofia era agli
antipodi proprio rispetto a Schopenauer. Hegel sosteneva infatti – ed era uno
dei massimi esponenti della Neuweltansschaung tedesca – che la guerra non solo
era necessaria ma inevitabile e utile a rafforzare gli animi e i corpi degli
uomini, nonché un atto di grande ETICITA’. Non pare anche a te una
farneticazione assurda dettata da una improvvisa perdita del lume del senno?
Eppure Hegel, a detta del popolo tedesco, è stato un patrono del rinnovamento
culturale dell’area germanica.

Da questo capisci che non solo l’uomo agisce senza
senno spinto dalle proprie pulsioni irrazionali, ma talvolta arriva persino a
giustificare questo suo atteggiamento disgustoso. Non è forse questo il segno
di un’incurabile malattia occulta sepolta nei più bui meandri della sua
psiche?”

E. “Allora la tua Psicanalisi, dear Sigmund, potrà
avere ragione di questi mali sradicandone le cause più profonde, potrai
impedire che la bestialità umana inaridisca la ragione della nostra razza
studiando i recessi della psiche alla ricerca della metastasi da asportare.”

F. “Purtroppo la soluzione alle disgrazie umane non
è né così semplice né immediata: i miei studi mi hanno portato ad esplorare un
ambito dell’esistenza finora mai considerato, ma sia i miei esimi colleghi che
io siamo pervenuti alla medesima sconfortante conclusione. Il male umano, la
fonte di tutte le bestialità, la “metastasi”, come tu la chiami, che spinge
l’uomo ad atti contro ragione ed autodistruttivi, l’”es”, è ineliminabile. La
mente umana, che si regge su un fragile equilibrio, ha bisogno di questa
componente per mantenerlo: tentare di forzare la psiche, annientandone la parte
più irrazionale, equivarrebbe a togliere pesi dal piatto di una bilancia in
precario equilibrio; le conseguenze potrebbero essere incontrollabili e forse
più negative dell’attuale stato del sistema – genere umano.

Perciò, herr Albert, mi risulta impossibile sradicare
un male tanto profondamente incarnatosi nell’animo umano, divenuto parte
integrante ed indissolubile di esso. Non esistono cure miracolose né maghi né
Dio che possano magicamente dissolvere la fonte delle bestialità umane.”

E. “Allora agli uomini secondo la tua esperienza,
non resta alcuna speranza. L’umanità, come accaduto una ventina di anni fa, è
destinata ad autocannibalizzarsi nella guerra e nel perpetuo rancore sino al
totale annientamento, ottenuto che sia con il cannone o con il fosgene”

F. “Tale è il destino scritto nella nostra stessa
mente, se essa seguirà le sue pulsioni irrazionali. Ma le cose potrebbero non
procedere in questo senso, imboccando quella via che già Voltaire aveva
indicato con gli Illuministi, se pur probabilmente anticipando di quasi due
secoli l’effettiva possibilità di realizzazione del suo disegno.”

E. “Cosa intendi dire?”

F. “Il conflitto mondiale, che secondo un folto
gruppo di stolti potenti sarebbe stato causato da un manipolo di pazzi in
divisa con l’elmetto, non è stato altro che l’apogeo delle follie e delle
ambizioni di potenza di interi popoli europei, non di singoli individui.
Eppure, da questa indescrivibile tragedia forse l’umanità, prima cullatasi
nell’illusione di essere divenuta “migliore” o “più aperta” o “democratica”, ho
potuto trarre una lezione più efficace di qualsiasi psicanalisi, di qualsiasi
predica, di qualsiasi teoria filosofica o scientifica: per l’uomo è arrivato
necessariamente il momento di fare ammenda, di recitare un mea culpa ed
impegnarsi VERAMENTE e PERSONALMENTE (e non delegando uno psichiatra o un Dio)
per sradicare le sue componenti più bestiali, per contenere il suo es, per
agire moralmente.

E non sto parlando di morali eudemonistiche o di false
etiche dello Stato e della guerra come quella proposta da Hegel o da certi
regimi dei tempi nostri, ma di un collettivo e unanime impegno volto al reale
ed effettivo miglioramento del genere umano. Non si può neppure lontanamente
ipotizzare un mondo governato dalla ragione fino a quando si combatteranno
guerre imperialistiche, si imporranno paci inique, si incoraggeranno tutte le
più elementari forme di ingiustizia. In tali condizioni l’uomo sarà sempre e
comunque portato a dare voce alle proprie pulsioni, alle proprie ambizioni, ai
propri più perniciosi desideri. Prevarranno sempre e comunque coloro che
inganneranno con malizia, si imporranno con prepotenza, ruberanno con avidità,
sperpereranno con prodigalità, senza rispetto per alcuno dei propri simili.”

Fonte: http://www.liceoquadri.it/xausa/2002_3%20triennio%20segnalato.doc

Corrispondenza:

PERCHÈ LA GUERRA? Carteggio Albert Einstein – Sigmund
Freud

Lettera di Einstein a Freud – Gaputh (Potsdam), 30 luglio 1932

Caro signor Freud,
La proposta, fattami
dalla Società delle Nazioni e dal suo “Istituto internazionale di cooperazione
intellettuale” di Parigi, di invitare una persona di mio gradimento a un franco
scambio d’opinioni su un problema qualsiasi da me scelto, mi offre la gradita
occasione di dialogare con Lei circa una domanda che appare, nella presente
condizione del mondo, la più urgente fra tutte quelle che si pongono alla
civiltà. La domanda è: C’è un modo per liberare gli uomini dalla fatalità della
guerra? E’: ormai risaputo che, col progredire della scienza moderna, rispondere
a questa domanda è divenuto una questione di vita o di morte per la civiltà da
noi conosciuta, eppure, nonostante tutta la buona volontà, nessun tentativo di
soluzione è purtroppo approdato a qualcosa.
Penso anche che coloro cui spetta
affrontare il problema professionalmente e praticamente divengano di giorno in
giorno più consapevoli della loro impotenza in proposito, e abbiano oggi un vivo
desiderio di conoscere le opinioni di persone assorbite dalla ricerca
scientifica, le quali per ciò stesso siano in grado di osservare i problemi del
mondo con sufficiente distacco. Quanto a me, l’obiettivo cui si rivolge
abitualmente il mio pensiero non m’aiuta a discernere gli oscuri recessi della
volontà e del sentimento umano. Pertanto, riguardo a tale inchiesta, dovrò
limitarmi a cercare di porre il problema nei giusti termini, consentendoLe così,
su un terreno sbarazzato dalle soluzioni più ovvie, di avvalersi della Sua vasta
conoscenza della vita istintiva umana per far qualche luce sul problema. Vi sono
determinati ostacoli psicologici di cui chi non conosce le scienze mentali ha un
vago sentore, e di cui tuttavia non riesce a esplorare le correlazioni e i
confini; sono convinto che Lei potrà suggerire metodi educativi, più o meno
estranei all’ambito politico, che elimineranno questi ostacoli.
Essendo
immune da sentimenti nazionalistici, vedo personalmente una maniera semplice di
affrontare l’aspetto esteriore, cioè organizzativo, del problema: gli Stati
creino un’autorità legislativa e giudiziaria col mandato di comporre tutti i
conflitti che sorgano tra loro. Ogni Stato si assuma l’obbligo di rispettare i
decreti di questa autorità, di invocarne la decisione in ogni disputa, di
accettarne senza riserve il giudizio e di attuare tutti i provvedimenti che essa
ritenesse necessari per far applicare le proprie ingiunzioni. Qui s’incontra la
prima difficoltà: un tribunale è un’istituzione umana che, quanto meno è in
grado di far rispettare le proprie decisioni, tanto più soccombe alle pressioni
stragiudiziali. Vi è qui una realtà da cui non possiamo prescindere: diritto e
forza sono inscindibili, e le decisioni del diritto s’avvicinano alla giustizia,
cui aspira quella comunità nel cui nome e interesse vengono pronunciate le
sentenze, solo nella misura in cui tale comunità ha il potere effettivo di
impone il rispetto del proprio ideale legalitario. Oggi siamo però lontanissimi
dal possedere una organizzazione sovrannazionale che possa emettere verdetti di
autorità incontestata e imporre con la forza di sottomettersi all’esecuzione
delle sue sentenze. Giungo così al mio primo assioma: la ricerca della sicurezza
internazionale implica che ogni Stato rinunci incondizionatamente a una parte
della sua libertà d’azione, vale a dire alla sua sovranità, ed è assolutamente
chiaro che non v’è altra strada per arrivare a siffatta
sicurezza.
L’insuccesso, nonostante tutto, dei tentativi intesi nell’ultimo
decennio a realizzare questa meta ci fa concludere senz’ombra di dubbio che qui
operano forti fattori psicologici che paralizzano gli sforzi. Alcuni di questi
fattori sono evidenti. La sete di potere della classe dominante è in ogni Stato
contraria a qualsiasi limitazione della sovranità nazionale. Questo smodato
desiderio di potere politico si accorda con le mire di chi cerca solo vantaggi
mercenari, economici. Penso soprattutto al piccolo ma deciso gruppo di coloro
che, attivi in ogni Stato e incuranti di ogni considerazione e restrizione
sociale, vedono nella guerra, cioè nella fabbricazione e vendita di armi,
soltanto un occasione per promuovere i loro interessi personali e ampliare la
loro personale autorità.
Tuttavia l’aver riconosciuto questo dato
inoppugnabile ci ha soltanto fatto fare il primo passo per capire come stiano
oggi le cose. Ci troviamo subito di fronte a un’altra domanda: com’è possibile
che la minoranza ora menzionata riesca ad asservire alle proprie cupidigie la
massa del popolo, che da una guerra ha solo da soffrire e da perdere? (Parlando
della maggioranza non escludo i soldati, di ogni grado, che hanno scelto la
guerra come loro professione convinti di giovare alla difesa dei più alti
interessi della loro stirpe e che l’attacco è spesso il miglior metodo di
difesa.) Una risposta ovvia a questa domanda sarebbe che la minoranza di quelli
che di volta in volta sono a1 potere ha in mano prima di tutto la scuola e la
stampa, e perlopiù anche le organizzazioni religiose. Ciò le consente di
organizzare e sviare i sentimenti delle masse rendendoli strumenti della propria
politica.
Pure, questa risposta non dà neanch’essa una soluzione completa e
fa sorgere una ulteriore domanda: com’è possibile che la massa si lasci
infiammare con i mezzi suddetti fino al furore e all’olocausto di sé?
Una
sola risposta si impone: perché l’uomo ha dentro di sé il piacere di odiare e di
distruggere. In tempi normali la sua passione rimane latente, emerge solo in
circostanze eccezionali; ma è abbastanza facile attizzarla e portarla alle
altezze di una psicosi collettiva. Qui, forse, è il nocciolo del complesso di
fattori che cerchiamo di districare, un enigma che può essere risolto solo da
chi è esperto nella conoscenza degli istinti umani.
Arriviamo così all’ultima
domanda. Vi è una possibilità di dirigere l’evoluzione psichica degli uomini in
modo che diventino capaci di resistere alle psicosi dell’odio e della
distruzione? Non penso qui affatto solo alle cosiddette masse incolte.
L’esperienza prova che piuttosto la cosiddetta “intellighenzia” cede per prima a
queste rovinose suggestioni collettive, poiché l’intellettuale non ha contatto
diretto con la rozza realtà, ma la vive attraverso la sua forma riassuntiva più
facile, quella della pagina stampata.
Concludendo: ho parlato sinora soltanto
di guerre tra Stati, ossia di conflitti internazionali. Ma sono perfettamente
consapevole del fatto che l’istinto aggressivo opera anche in altre forme e in
altre circostanze (penso alle guerre civili, per esempio, dovute un tempo al
fanatismo religioso, oggi a fattori sociali; o, ancora, alla persecuzione di
minoranze razziali). Ma la mia insistenza sulla forma più tipica, crudele e
pazza di conflitto tra uomo e uomo era voluta, perché abbiamo qui l’occasione
migliore per scoprire i mezzi e le maniere mediante i quali rendere impossibili
tutti i conflitti armati.
So che nei Suoi scritti possiamo trovare risposte
esplicite o implicite a tutti gli interrogativi posti da questo problema che è
insieme urgente e imprescindibile. Sarebbe tuttavia della massima utilità a noi
tutti se Lei esponesse il problema della pace mondiale alla luce delle Sue
recenti scoperte, perché tale esposizione potrebbe indicare la strada a nuovi e
validissimi modi d’azione.
Molto cordialmente Suo
Albert
Einstein

La risposta di Freud

Caro signor Einstein,
Quando ho saputo che
Lei aveva intenzione di invitarmi a uno scambio di idee su di un tema che Le
interessa e che Le sembra anche degno dell’interesse di altri, ho acconsentito
prontamente. Mi aspettavo che Lei avrebbe scelto un problema al limite del
conoscibile al giorno d’oggi, cui ciascuno di noi, il fisico come lo psicologo,
potesse aprirsi la sua particolare via d’accesso, in modo che da diversi lati
s’incontrassero sul medesimo terreno. Lei mi ha pertanto sorpreso con la domanda
su che cosa si possa fare per tenere lontana dagli uomini la fatalità della
guerra. Sono stato spaventato per prima cosa dall’impressione della mia – starei
quasi per dire: della nostra – incompetenza, poiché questo mi sembrava un
compito pratico che spetta risolvere agli uomini di Stato. Ma ho compreso poi
che Lei ha sollevato la domanda non come ricercatore naturale e come fisico,
bensì come amico dell’umanità, che aveva seguito gli incitamenti della Società
delle Nazioni così come fece l’esploratore polare Fridtjof Nansen allorché si
assunse l’incarico di portare aiuto agli affamati e alle vittime senza patria
della guerra mondiale. Ho anche riflettuto che non si pretende da me che io
faccia proposte pratiche, ma che devo soltanto indicare come il problema della
prevenzione della guerra si presenta alla considerazione di uno psicologo. Ma
anche a questo riguardo quel che c’era da dire è gia stato detto in gran parte
nel Suo scritto. In certo qual modo Lei mi ha tolto un vantaggio, ma io viaggio
volentieri nella sua scia e mi preparo perciò a confermare tutto ciò che Lei
mette innanzi. nella misura in cui lo svolgo più ampiamente seguendo le mie
migliori conoscenze (o congetture).
Lei comincia con il rapporto tra diritto
e forza. È certamente il punto di partenza giusto per la nostra indagine. Posso
sostituire la parola “forza” con la parola più incisiva e più dura “violenza”?
Diritto e violenza sono per noi oggi termini opposti. È facile mostrare che
l’uno si è sviluppato dall’altro e, se risaliamo ai primordi della vita umana
per verificare come ciò sia da principio accaduto, la soluzione del problema ci
appare senza difficoltà. Mi scusi se nel seguito parlo di ciò che è
universalmente noto come se fosse nuovo; la concatenazione dell’insieme mi
obbliga a farlo.
I conflitti d’interesse tra gli uomini sono dunque in linea
di principio decisi mediante l’uso della violenza. Ciò avviene in tutto il regno
animale, di cui l’uomo fa inequivocabilmente parte; per gli uomini si
aggiungono, a dire il vero, anche i conflitti di opinione, che arrivano fino
alle più alte cime dell’astrazione e sembrano esigere, per essere decisi,
un’altra tecnica. Ma questa è una complicazione che interviene più tardi.
Inizialmente, in una piccola orda umana, la maggiore forza muscolare decise a
chi dovesse appartenere qualcosa o la volontà di chi dovesse essere portata ad
attuazione. Presto la forza muscolare viene accresciuta o sostituita mediante
l’uso di strumenti; vince chi ha le armi migliori o le adopera più abilmente.
Con l’introduzione delle armi la superiorità intellettuale comincia già a
prendere il posto della forza muscolare bruta, benché lo scopo finale della
lotta rimanga il medesimo: una delle due parti, a cagione del danno che subisce
e dell’infiacchimento delle sue forze, deve essere costretta a desistere dalle
proprie rivendicazioni od opposizioni. Ciò è ottenuto nel modo più radicale
quando la violenza toglie di mezzo l’avversario definitivamente, vale a dire lo
uccide. Il sistema ha due vantaggi, che l’avversario non può riprendere le
ostilità in altra occasione e che il suo destino distoglie gli altri dal seguire
il suo esempio. Inoltre l’uccisione del nemico soddisfa un’inclinazione
pulsionale di cui parlerò più avanti. All’intenzione di uccidere subentra talora
la riflessione che il nemico può essere impiegato in mansioni servili utili se
lo s’intimidisce e lo si lascia in vita. Allora la violenza si accontenta di
soggiogarlo, invece che ucciderlo. Si comincia così a risparmiare il nemico, ma
il vincitore da ora in poi ha da fare i conti con la smania di vendetta del
vinto, sempre in agguato, e rinuncia in parte alla propria sicurezza.
Questo
è dunque lo stato originario, il predominio del più forte, della violenza bruta
o sostenuta dall’intelligenza. Sappiamo che questo regime è stato mutato nel
corso dell’evoluzione, che una strada condusse dalla violenza al diritto, ma
quale? Una sola a mio parere: quella che passava per l’accertamento che lo
strapotere di uno solo poteva essere bilanciato dall’unione di più deboli.
L’union fait la force. La violenza viene spezzata dall’unione di molti, la
potenza di coloro che si sono uniti rappresenta ora il diritto in opposizione
alla violenza del singolo. Vediamo così che il diritto è la potenza di una
comunità. È ancora sempre violenza, pronta a volgersi contro chiunque le si
opponga, opera con gli stessi mezzi, persegue gli stessi scopi; la differenza
risiede in realtà solo nel fatto che non è più la violenza di un singolo a
trionfare, ma quella della comunità. Ma perché si compia questo passaggio dalla
violenza al nuovo diritto deve adempiersi una condizione psicologica. L’unione
dei più deve essere stabile, durevole. Se essa si costituisse solo allo scopo di
combattere il prepotente e si dissolvesse dopo averlo sopraffatto, non si
otterrebbe niente. Il prossimo personaggio che si ritenesse più forte ambirebbe
di nuovo a dominare con la violenza, e il giuoco si ripeterebbe senza fine. La
comunità deve essere mantenuta permanentemente, organizzarsi, prescrivere gli
statuti che prevengano le temute ribellioni, istituire organi che veglino
sull’osservanza delle prescrizioni – le leggi – e che provvedano all’esecuzione
degli atti di violenza conformi alle leggi. Nel riconoscimento di una tale
comunione di interessi s’instaurano tra i membri di un gruppo umano coeso quei
legami emotivi, quei sentimenti comunitari sui quali si fonda la vera forza del
gruppo.
Con ciò, penso, tutto l’essenziale è gia stato detto: il trionfo
sulla violenza mediante la trasmissione del potere a una comunità più vasta che
viene tenuta insieme dai legami emotivi tra i suoi membri. Tutto il resto sono
precisazioni e ripetizioni.
La cosa è semplice finché la comunità consiste
solo di un certo numero di individui ugualmente forti. Le leggi di questo
sodalizio determinano allora fino a che punto debba essere limitata la libertà
di ogni individuo di usare la sua forza in modo violento, al fine di rendere
possibile una vita collettiva sicura. Ma un tale stato di pace è pensabile solo
teoricamente, nella realtà le circostanze si complicano perché la comunità fin
dall’inizio comprende elementi di forza ineguale, uomini e donne, genitori e
figli, e ben presto, in conseguenza della guerra e dell’assoggettamento,
vincitori e vinti, che si trasformano in padroni e schiavi. Il diritto della
comunità diviene allora espressione dei rapporti di forza ineguali all’interno
di essa, le leggi vengono fatte da e per quelli che comandano e concedono scarsi
diritti a quelli che sono stati assoggettati. Da allora in poi vi sono nella
comunità due fonti d’inquietudine – ma anche di perfezionamento – del diritto.
In primo luogo il tentativo di questo o quel signore di ergersi al di sopra
delle restrizioni valide per tutti, per tornare dunque dal regno del diritto a
quello della violenza; in secondo luogo gli sforzi costanti dei sudditi per
procurarsi più potere e per vedere riconosciuti dalla legge questi mutamenti,
dunque, al contrario, per inoltrarsi dal diritto ineguale verso il diritto
uguale per tutti. Questo movimento in avanti diviene particolarmente notevole
quando si danno effettivi spostamenti dei rapporti di potere all’interno della
collettività, come può accadere per l’azione di molteplici fattori storici. Il
diritto si può allora conformare gradualmente ai nuovi rapporti di potere,
oppure, cosa che accade più spesso, la classe dominante non è pronta a tener
conto di questo cambiamento, si giunge all’insurrezione, alla guerra civile,
dunque a una temporanea soppressione del diritto e a nuove testimonianze di
violenza, in seguito alle quali viene instaurato un nuovo ordinamento giuridico.
C’è anche un’altra fonte di mutamento del diritto, che si manifesta solo in modi
pacifici, cioè la trasformazione dei membri di una collettività, ma essa
appartiene a un contesto che può essere preso in considerazione solo più
avanti.
Vediamo dunque che anche all’interno di una collettività non può
venire evitata la risoluzione violenta dei conflitti. Ma le necessità e le
coincidenze di interessi che derivano dalla vita in comune sulla medesima terra
favoriscono una rapida conclusione di tali lotte, e le probabilità che in queste
condizioni si giunga a soluzioni pacifiche sono in continuo aumento. Uno sguardo
alla storia dell’umanità ci mostra tuttavia una serie ininterrotta di conflitti
tra una collettività e una o più altre, tra unità più o meno vaste, città,
paesi, tribù, popoli, Stati, conflitti che vengono decisi quasi sempre mediante
la prova di forza della guerra. Tali guerre si risolvono o in saccheggio o in
completa sottomissione, conquista dell’una parte ad opera dell’altra. Non si
possono giudicare univocamente le guerre di conquista. Alcune, come quelle dei
Mongoli e dei Turchi, hanno arrecato solo calamità, altre al contrario hanno
contribuito alla trasformazione della violenza in diritto avendo prodotto unità
più grandi, al cui interno la possibilità di ricorrere alla violenza venne
annullata e un nuovo ordinamento giuridico riuscì a comporre i conflitti. Così
le conquiste dei Romani diedero ai paesi mediterranei la preziosa pax romana. La
cupidigia dei re francesi di ingrandire i loro possedimenti creò una Francia
pacificamente unita, fiorente. Per quanto ciò possa sembrare paradossale, si
deve tuttavia ammettere che la guerra non sarebbe un mezzo inadatto alla
costruzione dell’agognata pace “eterna”, poiché potrebbe riuscire a creare
quelle più vaste unità al cui interno un forte potere centrale rende impossibili
ulteriori guerre. Tuttavia la guerra non ottiene questo risultato perché i
successi della conquista di regola non sono durevoli; le unità appena create si
disintegrano, perlopiù a causa della insufficiente coesione delle parti unite
forzatamente. E inoltre la conquista ha potuto fino ad oggi creare soltanto
unificazioni parziali, anche se di grande estensione, e sono proprio i conflitti
sorti all’interno di queste unificazioni che hanno reso inevitabile il ricorso
alla violenza. Così l’unica conseguenza di tutti questi sforzi bellici è che
l’umanità ha sostituito alle continue guerricciole le grandi guerre, tanto più
devastatrici quanto meno frequenti.
Per quanto riguarda la nostra epoca, si
impone la medesima conclusione a cui Lei è giunto per una via più breve. Una
prevenzione sicura della guerra è possibile solo se gli uomini si accordano per
costituire un’autorità centrale, al cui verdetto vengano deferiti tutti i
conflitti di interessi. Sono qui chiaramente racchiuse due esigenze diverse:
quella di creare una simile Corte suprema, e quella di assicurarle il potere che
le abbisogna. La prima senza la seconda non gioverebbe a nulla. Ora la Società
delle Nazioni è stata concepita come suprema potestà del genere, ma la seconda
condizione non è stata adempiuta; la Società delle Nazioni non dispone di forza
propria e può averne una solo se i membri della nuova associazione – i singoli
Stati – gliela concedono. Tuttavia per il momento ci sono scarse probabilità che
ciò avvenga. Ci sfuggirebbe il significato di un’istituzione come quella della
Società delle Nazioni, se ignorassimo il fatto che qui ci troviamo di fronte a
un tentativo coraggioso, raramente intrapreso nella storia dell’umanità e forse
mai in questa misura. Essa è il tentativo di acquisire mediante il richiamo a
determinati princìpi ideali l’autorità (cioè l’influenza coercitiva) che di
solito si basa sul possesso della forza. Abbiamo visto che gli elementi che
tengono insieme una comunità sono due: la coercizione violenta e i legami
emotivi tra i suoi membri (ossia, in termini tecnici, quelle che si chiamano
identificazioni). Nel caso in cui venga a mancare uno dei due fattori non è
escluso che l’altro possa tener unita la comunità. Le idee cui ci si appella
hanno naturalmente un significato solo se esprimono importanti elementi comuni
ai membri di una determinata comunità. Sorge poi il problema: Che forza si può
attribuire a queste idee? La storia insegna che una certa funzione l’hanno pur
svolta. L’idea panellenica, per esempio, la coscienza di essere qualche cosa di
meglio che i barbari confinanti, idea che trovò così potente espressione nelle
anfizionie, negli oracoli e nei Giuochi, fu abbastanza forte per mitigare i
costumi nella conduzione della guerra fra i Greci, ma ovviamente non fu in grado
di impedire il ricorso alle armi fra le diverse componenti del popolo ellenico,
e neppure fu mai in grado di trattenere una città o una federazione di città
dallo stringere alleanza con il nemico persiano per abbattere un rivale.
Parimenti il sentimento che accomunava i Cristiani, che pure fu abbastanza
potente, non impedì durante il Rinascimento a Stati cristiani grandi e piccoli
di sollecitare l’aiuto del Sultano nelle loro guerre intestine. Anche nella
nostra epoca non vi è alcuna idea cui si possa attribuire un’autorità unificante
del genere. È fin troppo chiaro che gli ideali nazionali da cui oggi i popoli
sono dominati spingono in tutt’altra direzione. C’è chi predice che soltanto la
penetrazione universale del modo di pensare bolscevico potrà mettere fine alle
guerre, ma in ogni caso siamo oggi ben lontani da tale meta, che forse sarà
raggiungibile solo a prezzo di spaventose guerre civili. Sembra dunque che il
tentativo di sostituire la forza reale con la forza delle idee sia per il
momento votato all’insuccesso. È un errore di calcolo non considerare il fatto
che il diritto originariamente era violenza bruta e che esso ancor oggi non può
fare a meno di ricorrere alla violenza.
Posso ora procedere a commentare
un’altra delle Sue proposizioni. Lei si meraviglia che sia tanto facile
infiammare gli uomini alla guerra, e presume che in loro ci sia effettivamente
qualcosa, una pulsione all’odio e alla distruzione, che è pronta ad accogliere
un’istigazione siffatta. Di nuovo non posso far altro che convenire senza
riserve con Lei. Noi crediamo all’esistenza di tale istinto e negli ultimi anni
abbiamo appunto tentato di studiare le sue manifestazioni. Mi consente, in
proposito, di esporLe parte della teoria delle pulsioni cui siamo giunti nella
psicoanalisi dopo molti passi falsi e molte esitazioni?
Noi presumiamo che le
pulsioni dell’uomo siano soltanto di due specie, quelle che tendono a conservare
e a unire – da noi chiamate sia erotiche (esattamente nel senso di Eros nel
Convivio di Platone) sia sessuali, estendendo intenzionalmente il concetto
popolare di sessualità, – e quelle che tendono a distruggere e a uccidere;
queste ultime le comprendiamo tutte nella denominazione di pulsione aggressiva o
distruttiva.
Lei vede che propriamente si tratta soltanto della dilucidazione
teorica della contrapposizione tra amore e odio, universalmente nota, e che
forse è originariamente connessa con la polarità di attrazione e repulsione che
interviene anche nel Suo campo di studi. Non ci chieda ora di passare troppo
rapidamente ai valori di bene e di male. Tutte e due le pulsioni sono parimenti
indispensabili, perché i fenomeni della vita dipendono dal loro concorso e dal
loro contrasto. Ora, sembra che quasi mai una pulsione di un tipo possa agire
isolatamente, essa è sempre legata – vincolata, come noi diciamo – con un certo
ammontare della controparte, che ne modifica la meta o, talvolta, solo così ne
permette il raggiungimento. Per esempio, la pulsione di autoconservazione è
certamente esotica, ma ciò non toglie che debba ricorrere all’aggressività per
compiere quanto si ripromette. Allo stesso modo la pulsione amorosa, rivolta a
oggetti, necessita un quid della pulsione di appropriazione, se veramente vuole
impadronirsi del suo oggetto. La difficoltà di isolare le due specie di pulsioni
nelle loro manifestazioni ci ha impedito per tanto tempo di riconoscerle.
Se
Lei è disposto a proseguire con me ancora un poco, vedrà che le azioni umane
rivelano anche una complicazione di altro genere. E’ assai raro che l’azione sia
opera di un singolo moto pulsionale, il quale d’altronde deve essere già una
combinazione di Eros e distruzione. Di regola devono concorrere parecchi motivi
similmente strutturati per rendere possibile l’azione. Uno dei Suoi colleghi
l’aveva già avvertito, un certo professor G. C. Lichtenberg, che insegnava
fisica a Gottinga al tempo dei nostri classici; ma forse egli era anche più
notevole come psicologo di quel che fosse come fisico. Egli scoprì la rosa dei
moventi, nell’atto in cui dichiarò: “I motivi per i quali si agisce si
potrebbero ripartire come i trentadue venti e indicarli con nomi analoghi, per
esempio ‘Pane-Pane-Fama’ o ‘Fama-Fama-Pane’.” Pertanto, quando gli uomini
vengono incitati alla guerra, è possibile che si destino in loro un’intera serie
di motivi consenzienti, nobili e volgari, quelli di cui si parla apertamente e
altri che vengono taciuti. Non è il caso di enumerarli tutti. Il piacere di
aggredire e distruggere ne fa certamente parte; innumerevoli crudeltà della
storia e della vita quotidiana confermano la loro esistenza e la loro forza. Il
fatto che questi impulsi distruttivi siano mescolati con altri impulsi, erotici
e ideali, facilita naturalmente il loro soddisfacimento. Talvolta, quando
sentiamo parlare delle atrocità della storia, abbiamo l’impressione che i motivi
ideali siano serviti da paravento alle brame di distruzione; altre volte,
trattandosi per esempio crudeltà della Santa Inquisizione, che i motivi ideali
fossero preminenti nella coscienza, mentre i motivi distruttivi recassero loro
un rafforzamento inconscio. Entrambi i casi sono possibili.
Ho qualche
scrupolo ad abusare del Suo interesse, che si rivolge alla prevenzione della
guerra e non alle nostre teorie. Tuttavia vorrei intrattenermi ancora un attimo
sulla nostra pulsione distruttiva, meno nota di quanto richiederebbe la sua
importanza. Con un po’ di speculazione ci siamo convinti che essa opera in ogni
essere vivente e che la sua aspirazione è di portarlo alla rovina, di ricondurre
la vita allo stato della materia inanimata. Con tutta serietà le si addice il
nome di pulsione di morte, mentre le pulsioni erotiche stanno a rappresentare
gli sforzi verso la vita. La pulsione di morte diventa pulsione distruttiva
allorquando, con l’aiuto di certi organi, si rivolge all’esterno, verso gli
oggetti. L’essere vivente protegge, per così dire, la propria vita
distruggendone una estranea. Una parte della pulsione di morte, tuttavia, rimane
attiva all’interno dell’essere vivente e noi abbiamo tentato di derivare tutta
una serie di fenomeni normali e patologici da questa interiorizzazione della
pulsione distruttiva. Siamo perfino giunti all’eresia di spiegare l’origine
della nostra coscienza morale con questo rivolgersi dell’aggressività verso
l’interno. Noti che non è affatto indifferente se questo processo è spinto
troppo oltre in modo diretto; in questo caso è certamente malsano. Invece il
volgersi di queste forze pulsionali alla distruzione nel mondo esterno scarica
l’essere vivente e non può non avere un effetto benefico. Ciò serve come scusa
biologica a tutti gli impulsi esecrabili e pericolosi contro i quali noi
combattiamo. Si deve ammettere che essi sono più vicini alla natura di quanto lo
sia la resistenza con cui li contrastiamo e di cui ancora dobbiamo trovare una
spiegazione. Forse Lei ha l’impressione che le nostre teorie siano una specie di
mitologia, in questo caso neppure festosa. Ma non approda forse ogni scienza
naturale in una sorta di mitologia? Non è così oggi anche per Lei, nel campo
della fisica?
Per gli scopi immediati che ci siamo proposti da quanto precede
ricaviamo la conclusione che non c’è speranza di poter sopprimere le tendenze
aggressive degli uomini. Si dice che in contrade felici, dove la natura offre a
profusione tutto ciò di cui l’uomo ha bisogno, ci sono popoli la cui vita scorre
nella mitezza. presso cui la coercizione e l’aggressione sono sconosciute. Posso
a malapena crederci; mi piacerebbe saperne di più, su questi popoli felici.
Anche i bolscevichi sperano di riuscire a far scomparire l’aggressività umana,
garantendo il soddisfacimento dei bisogni materiali e stabilendo l’uguaglianza
sotto tutti gli altri aspetti tra i membri della comunità. Io la ritengo
un’illusione. Intanto, essi sono diligentemente armati, e fra i modi con cui
tengono uniti i loro seguaci non ultimo è il ricorso all’odio contro tutti gli
stranieri. D’altronde non si tratta, come Lei stesso osserva, di abolire
completamente l’aggressività umana; si può cercare di deviarla al punto che non
debba trovare espressione nella guerra.
Partendo dalla nostra dottrina
mitologica delle pulsioni, giungiamo facilmente a una formula per definire le
vie indirette di lotta alla guerra. Se la propensione alla guerra è un prodotto
della pulsione distruttiva, contro di essa è ovvio ricorrere all’antagonista di
questa pulsione: l’Eros. Tutto ciò che fa sorgere legami emotivi tra gli uomini
deve agire contro la guerra. Questi legami possono essere di due tipi. In primo
luogo relazioni che pur essendo prive di meta sessuale assomiglino a quelle che
si hanno con un oggetto d’amore. La psicoanalisi non ha bisogno di vergognarsi
se qui parla di amore, perché la religione dice la stessa cosa: “ama il prossimo
tuo come te stesso”.
Ora, questo è un precetto facile da esigere, ma
difficile da attuare. L’altro tipo di legame emotivo è quello per
identificazione. Tutto ciò che provoca solidarietà significative tra gli uomini
risveglia sentimenti comuni di questo genere, le identificazioni. Su di esse
riposa in buona parte l’assetto della società umana.
L’abuso di autorità da
Lei lamentato mi suggerisce un secondo metodo per combattere indirettamente la
tendenza alla guerra. Fa parte dell’innata e ineliminabile diseguaglianza tra
gli uomini la loro distinzione in capi e seguaci. Questi ultimi sono la
stragrande maggioranza, hanno bisogno di un’autorità che prenda decisioni per
loro, alla quale perlopiù si sottomettono incondizionatamente. Richiamandosi a
questa realtà, si dovrebbero dedicare maggiori cure, più di quanto si sia fatto
finora all’educazione di una categoria superiore di persone dotate di
indipendenza di pensiero, inaccessibili alle intimidazioni e cultrici della
verità, alle quali dovrebbe spettare la guida delle masse prive di autonomia.
Che le intrusioni del potere statale e la proibizione di pensare sancita dalla
Chiesa non siano favorevoli ad allevare cittadini simili non ha bisogno di
dimostrazione. La condizione ideale sarebbe naturalmente una comunità umana che
avesse assoggettato la sua vita pulsionale alla dittatura della ragione.
Nient’altro potrebbe produrre un’unione tra gli uomini così perfetta e così
tenace, perfino in assenza di reciproci legami emotivi. Ma secondo ogni
probabilità questa è una speranza utopistica. Le altre vie per impedire
indirettamente la guerra sono certo più praticabili, ma non promettono alcun
rapido successo. E’ triste pensare a mulini che macinano talmente adagio che la
gente muore di fame prima di ricevere la farina.
Vede che, quando si consulta
il teorico estraneo al mondo per compiti pratici urgenti, non ne vien fuori
molto. E’ meglio se in ciascun caso particolare si cerca di affrontare il
pericolo con i mezzi che sono a portata di mano. Vorrei tuttavia trattare ancora
un problema, che nel Suo scritto Lei non solleva e che m’interessa
particolarmente. Perché ci indigniamo tanto contro la guerra, Lei e io e tanti
altri, perché non la prendiamo come una delle molte e penose calamità della
vita? La guerra sembra conforme alla natura, pienamente giustificata
biologicamente, in pratica assai poco evitabile. Non inorridisca perché pongo la
domanda. Al fine di compiere un’indagine come questa è forse lecito fingere un
distacco di cui in realtà non si dispone. La risposta è: perché ogni uomo ha
diritto alla propria vita, perché la guerra annienta vite umane piene di
promesse, pone i singoli individui in condizioni che li disonorano, li
costringe, contro la propria volontà, a uccidere altri individui, distrugge
preziosi valori materiali, prodotto del lavoro umano, e altre cose ancora.
Inoltre la guerra nella sua forma attuale non dà più alcuna opportunità di
attuare l’antico ideale eroico, e la guerra di domani, a causa del
perfezionamento dei mezzi di distruzione, significherebbe lo sterminio di uno o
forse di entrambi i contendenti. Tutto ciò è vero e sembra così incontestabile
che ci meravigliamo soltanto che il ricorso alla guerra non sia stato ancora
ripudiato mediante un accordo generale dell’umanità. Qualcuno dei punti qui
enumerati può evidentemente essere discusso: ci si può chiedere se la comunità
non debba anch’essa avere un diritto sulla vita del singolo; non si possono
condannare nella stessa misura tutti i tipi di guerra; finché esistono stati e
nazioni pronti ad annientare senza pietà altri stati e altre nazioni, questi
sono necessitati a prepararsi alla guerra. Ma noi vogliamo sorvolare rapidamente
su tutto ciò, giacché non è questa la discussione a cui Lei mi ha impegnato. Ho
in mente qualcos’altro, credo che la ragione principale per cui ci indigniamo
contro la guerra è che non possiamo fare a meno di farlo. Siamo pacifisti perché
dobbiamo esserlo per ragioni organiche: ci è poi facile giustificare il nostro
atteggiamento con argomentazioni.
So di dovermi spiegare, altrimenti non sarò
capito. Ecco quello che voglio dire: Da tempi immemorabili l’umanità è soggetta
al processo dell’incivilimento (altri, lo so, chiamano più volentieri questo
processo: civilizzazione). Dobbiamo ad esso il meglio di ciò che siamo divenuti
e buona parte di ciò di cui soffriamo.
Le sue cause e origini sono oscure, il
suo esito incerto, alcuni dei suoi caratteri facilmente visibili. Forse porta
all’estinzione del genere umano, giacché in più di una guisa pregiudica la
funzione sessuale, e già oggi si moltiplicano in proporzioni più forti le razze
incolte e gli strati arretrati della popolazione che non quelli altamente
coltivati. Forse questo processo si può paragonare all’addomesticamento di certe
specie animali; senza dubbio comporta modificazioni fisiche; tuttavia non ci si
è ancora familiarizzati con l’idea che l’incivilimento sia un processo organico
di tale natura. Le modificazioni psichiche che intervengono con l’incivilimento
sono invece vistose e per nulla equivoche. Esse consistono in uno spostamento
progressivo delle mete pulsiona!i. Sensazioni che per i nostri progenitori erano
cariche di piacere, sono diventate per noi indifferenti o addirittura
intollerabili; esistono fondamenti organici del fatto che le nostre esigenze
ideali, sia etiche che estetiche, sono mutate. Dei caratteri psicologici della
civiltà, due sembrano i più importanti: il rafforzamento dell’intelletto, che
comincia a dominare la vita pulsionale, e l’interiorizzazione dell’aggressività,
con tutti i vantaggi e i pericoli che ne conseguono. Orbene, poiché la guerra
contraddice nel modo più stridente a tutto l’atteggiamento psichico che ci è
imposto dal processo civile, dobbiamo necessariamente ribellarci contro di essa:
semplicemente non la sopportiamo più; non si tratta soltanto di un rifiuto
intellettuale e affettivo, per noi pacifisti si tratta di un’intolleranza
costituzionale, per così dire della massima idiosincrasia. E mi sembra che le
degradazioni estetiche della guerra non abbiano nel nostro rifiuto una parte
molto minore delle sue crudeltà.
Quanto dovremo aspettare perché anche gli
altri diventino pacifisti? Non si può dirlo, ma forse non è una speranza
utopistica che l’influsso di due fattori – un atteggiamento più civile e il
giustificato timore degli effetti di una guerra futura – ponga fine alle guerre
in un prossimo avvenire. Per quali vie dirette o traverse non possiamo
indovinarlo. Nel frattempo possiamo dirci: tutto ciò che promuove l’evoluzione
civile lavora anche contro la guerra.
La saluto cordialmente e Le chiedo
scusa se le mie osservazioni L’hanno delusa.
Suo Sigm. Freud